Chris Korda, dalla Perlon all’eutanasia: “O maturiamo, o moriamo”
Di Damir Ivic
Ci sono due modi di considerare Chris Korda. Uno è “Ah sì, uno che esce su Perlon, e prima ancora negli anni d’oro della label sulla Gigolo, mica male”;
l’altro, molto più appropriato, è quella che entra a fondo nella
biografia e nell’output concettuale dell’artista (sì, artista: la musica
è solo una delle forme d’espressione, anche se probabilmente la più
importante). Con lui, le prese di posizioni forti, nette e stimolanti
sono la regola. Non fatevi respingere dalla complessità dei ragionamenti
(…dovrebbe invece attirarvi, per uscire finalmente dalle interviste e
dai comunicati stampa banali e preconfezionati), non sentitevi in dovere
di essere d’accordo su tutto: ma dietro le sue (apparenti)
provocazioni, c’è in realtà tantissima sostanza ed intelligenza, così
come dietro la sua musica oltre ad una gradevolezza immediata (…occhio a
quello che dice sulla musica di oggi troppo spesso ridotta a mero sound
design) c’è un grande spessore teorico. Americano di nascita, classe
1962, transgender dichiarato fin dal 1991, erede di una dinastia – i
Korda – di grandi registi e letterati, vive a Berlino da tempo. Capite
insomma che catalogarlo come “Ah sì, quello che esce su Perlon”
più che sbagliato diventa, per voi lettori e lettrici, proprio
un’occasione persa. Tuffatevi nelle sue parole, in questa intervista che
è nata per parlare della sua ultimissima release sulla lunga durata, “Apologize To The Future”,
ma si allarga tantissimo fino a toccare diversi punti importanti. E
controversi. O forse proprio importanti perché controversi.
“Apologize To The Future”, ovvero “Le nostre scuse al futuro”…
Ma senti: è la nostra generazione che è la più egoista di tutte e la
meno attenta a cosa lascerà in eredità a chi verrà dopo di lei, oppure
questo è un problema che è stato ricorrente nella storia dell’uomo,
quello cioè dell’eredità generazionale?
Io credo che l’egoismo di queste generazioni sia enorme e non abbia
precedenti, nella storia dell’umanità. Ora abbiamo la possibilità, una
possibilità proprio tecnologica, di mandare all’aria il nostro futuro,
di distruggerlo: ed è esattamente questo ciò che stiamo facendo. Anche
perché le nostre guide morali sei ci pensi sono i grandi ricchi del
pianeta, che sono dei leader non solo nella finanze ma anche nel
narcisismo e nella sociopatia. Insomma: i genitori di oggi stanno
letteralmente condannando i propri figli e i propri nipoti ad
un’esistenza violenta, brutale, su un pianeta quasi irriconoscibile e
quasi invivibile. L’idea di dare “…le nostre scuse al futuro” nasce da uno speech di Dan Miller, “A REALLY Inconvenient Truth”, che si può recuperare anche su YouTube. Fa un elenco delle cose che dovremmo fare, una per una, e al primo posto c’è “Chiedere scusa ai vostri figli”. Questo mi ha spinto ad elaborare uno scenario, sotto la domanda “Che opinione avranno di noi le future generazioni?”:
ammesso e non concesso che le generazioni successive alla nostra
avranno la fortuna – o la sfortuna? – di vivere, sono abbastanza sicuro
che saranno molto incazzati con noi per averli catapultati in un tale
inferno.
Non hai certo paura di spingerti a fare dichiarazioni forti, e
di auspicare scelte radicali o prospettare panorami foschi, è chiaro
fin da questa prima risposta: trovo quindi davvero interessante
chiederti cosa bisognerebbe fare, allora, per migliorare la nostra
società occidentale, quali sarebbero cioè le strutture o le
sovrastrutture da decostruire. Anzi, a questa domanda aggiungo una
domanda-corollario: se torni indietro agli anni ’90, credi che il
problema sarebbe stato altrettanto stringente? Con lo stesso tipo di
necessità?
Quando ho fondato la Church Of Euthanasia,
nel 1992, la mia intenzione era di convincere le persone a non avere
figli. Oggi, la vedo uguale. “Apologize To The Future” è un lavoro che
al 100% è anti-natalità. La sua canzone d’apertura è un atto d’accusa
contro i genitori e la loro incapacità di rispettare il futuro, e
incoraggia l’ascoltatore ad immaginarsi una vita basata sulla
non-procreazione, denunciando anche l’assurdità del fare sempre più
figli. Ora infatti che la crisi ambientale sta oltrepassando i livelli
di guardia, fare figli non è solo un atto egoista, è proprio una
crudeltà. Non vedo nessuna giustificazione etica per procreare sempre
più lasciando le prossime generazioni ad un mondo destinato a diventare
una landa desolata ed inospitale. Ma se credi che io dica tutto questo
con l’idea di salvare il pianeta, beh… vuol dire che non riesci a
cogliere il sottile sense of humour che permea la mia arte. Il nostro
pianeta non ha bisogno di essere salvato. Il nostro pianeta starà bene
qualsiasi cosa succeda, almeno fino a quando – fra qualche miliardo di
anni – il sole non deciderà di distruggerlo. Vivere è difficile, ma gli
organismi viventi sono sopravvissuti a molti disastri nel corso dei
secoli e dei millenni. Guarda alle estinzioni che ci sono state nel permiano-triassico,
se non mi credi. Se l’essere umano scomparisse domani, la terra sarebbe
popolata da altre specie viventi nell’arco di pochi millenni; quello
che bisogna salvare non è la specie umana in sé, è la civiltà. La
civilizzazione. Qualcosa che è più fragile di un qualsiasi fiore
tropicale. La civilizzazione è la specie animale più a rischio sul
pianeta terra, oggi. Io amo la civiltà: sono cresciuto in una città
molto affollata, e ho speso il grosso della mia infanzia leggendo. Io
amo la civiltà perché senza di essa non sarebbe mai nati i musei o le
scienze, e noi saremmo dei selvaggi. E’ la civiltà ciò che rende gli
esseri umani degli esseri viventi interessanti. La terra, senza l’uomo
civilizzato, sarebbe un posto intollerabilmente piatto, noioso. E allora
ti dico questo: se tu tifi estinzione in senso lato, potresti unirti
all’organizzazione “sorella” della Church Of Euthanasia, ovvero il
Voluntary Human Extinction Movement; ma se quello che a te interessa è
solo salvare la specie umana senza porti troppi problemi sulla sua
civiltà, o fai parte di un gruppuscolo anarchico neo-primitivista, o
stai in prigione con Ted Kaczynski.
Nella mia esperienza personale, tutte le persone che cercano di
assestare colpi ad una convivenza civilizzata lo fanno solo ed
unicamente perché vogliono trarre da ciò un vantaggio economico. Se sei
andato all’università, hai beneficiato eccome dei pregi della
civilizzazione, no? E ora che fai: vuoi fare la tua scalata sociale
incitando proprio al picconamento della convivenza civile? Che
arrogante, egoista ed infame che sei! Ogni persona dotata di raziocinio
non accetterebbe mai di abdicare alle conquiste della civiltà (ottenute
con lavoro e fatica, tra l’altro) per tornare al neolitico, all’età
della pietra. L’unico modo in cui puoi imporre una scelta retrograda di
questo tipo è, semplicemente, con la forza. Non che non veda che la
civilizzazione contenga delle contraddizioni interne, sia chiaro;
contraddizioni che, in teoria, potrebbero anche portare alla nostra
distruzione. Verissimo. Ma io in ogni caso la amo, perché è lei che
rende questa vita sulla terra degna di essere vissuta. Secondo alcuni studi scientifici, c’è il 90% di probabilità che finiremo coll’autodistruggerci, in un futuro nemmeno troppo remoto. Se assumiamo per valide le Drake Equation,
le forme di vita intelligenti sono sempre destinate ad
auto-distruggersi – è per questo che non ne conosciamo altre oltre alla
nostra. L’intelligenza tende ad uccidersi (…e questa è una soluzione al Paradosso di Fermi).
L’universo è un posto pericoloso: il fallimento finale di un processo è
un esito che non deve essere visto come sorprendente. Se la civiltà
alla fine collasserà, credo che comunque non avremo molto da
rimproverarci, nel momento in cui abbiamo fatto del nostro meglio per
portarla avanti.
Che poi, trasportando tutto questo discorso su un piano
musicale, all’inizio avevamo sognato la musica elettronica da club e il
clubbing in generale come un qualcosa di liberatorio, qualcosa capace di
seguire dinamiche e pratiche diverse ed alternative al mainstream: fino
a che punto questa speranza ha ancora cittadinanza (e senso) oggi?
La voglia di fare party viene fatta passare per cultura – e questo è
un segno dei tempi. Anche il modo di drogarsi è un fattore importante in
questa narrazione: oggi la cosa più popolare è anestetizzarsi, lo hai
notato? La gente vuole “smettere di sentire” per un po’, e di
certo la posso capire, ok. Chi fa musica però ha il sogno di essere
popolare; quindi la via più veloce è fare musica che sia anestetizzante.
E così si crea un circolo vizioso… Però la verità è che non c’è nulla
che ti impedisca di fare musica che sia un po’ più sfidante. Si tratta
solo di avere il coraggio di rinunciare a certezze acquisite, più un po’
di cultura musicale. La cassa in quattro deve estinguersi. E’ durata
quarant’anni: mi pare già abbastanza. Abbiamo bisogno di uno spostamento
di paradigma ed è per questo, tra l’altro, che io mi costruisco il mio
universo estetico e le mie regole ritmiche da solo da solo. Avvicinatevi
tutti alla rivoluzione dei polimetri!
A proposito dei polimetri e di “Polymeter”, se mettiamo
questo album, “Akoko Ajeji” e l’appena uscito “Apologize To The Future”
sullo stesso piano, quali sono le differenze e quali invece le qualità
che li accomunano?
Tre album fatti in meno di due anni. Accomunati dal fatto che,
ritmicamente, sono costruiti su polimetri piuttosto complessi. I
polimetri sono l’uso in simultanea di più unità di misura ritmiche
insieme. Ad esempio, questo succede quando in un brano uso
contemporaneamente i 5/4, i 7/4 e gli 11/4. Cerco di evitare i 4/4
perché davvero, sono ormai incredibilmente inflazionati… Tra l’altro, se
vuoi lavorare con una struttura polimetrica il mio sequencer
customizzato può renderti la vita molto più facile ed è libero, a disposizione di tutti.
Ho iniziato a modificarlo attorno al 2018, e “Akoko Ajeji” si è
costruito attorno a queste evoluzioni. “Polymeter” è arrivato dopo, e lì
ho fatto un lavoro avanzato anche sulle armonie. Lavoro che si riflette
anche in molte parti di “Apologize To The Future”, dove invece di
affidarmi alle classiche scale le armonie sono dettate da modifiche di
pitch. La traccia “Overshoot” è un perfetto esempio di canzone dove
l’armonia è generata matematicamente da algoritmi e corre su base
atonale.
A questo punto diventa molto interessante chiederti quali
sono gli artisti – penso a musicisti, ma puoi anche prendere in
considerazione altri campi d’espressione artistica – che trovi più
fertili per la tua ispirazione, fra quelli emersi negli ultimi diciamo
vent’anni o poco più.
Beh, gli ultimi due decenni non sono stati proprio esaltanti, come
creatività musicale… Però ci sono alcuni lavori che mi arrivano subito
in mente: “Dots And Loops” degli Stereolab, “Tales Of The Inexpressible”
degli Shpongle, “10 Fake Id’s” dei Masonne. Fra le uscite più recenti,
devo dire che “Europe Is Lost” di Kate Tempest mi ha insegnato a trovare
dei motivi d’interesse nel rap, e ho ammirato veramente tanto il lavoro
fatto da Joyner Lucas in “I’m No Racist”. La mia ispirazione principale
per quanto riguarda l’approccio polimetrico è Thomas Wilfred –
controlla la pagina Wikipedia che lo riguarda.
Ho incontrato per la prima volta il suo lavoro quando ero un ragazzo,
al Museum of Modern Art. Alcune delle sue macchine a nome “Lumia”
riescono ad andare avanti per anni senza ripetere mai lo stesso pattern.
A livello artistico più generale, sono ispirato anche da nomi come
James Hampton o Simon Rodia.
Ma ha senso essere un po’ nostalgici verso gli anni ’90,
soprattutto per quanto riguarda la scena elettronica? In generale, ha
senso essere nostalgici?
Io ho nostalgia piuttosto degli anni ’70, quando nelle canzoni
c’erano un sacco di cambi armonici e ritmi strani. La complessità nella
musica è andata in diminuendo di continuo, da quel momento in poi. La
musica è sempre più in mano a non-musicisti. I grandi player della
musica contemporanea, che sono essenzialmente dei player tecnologici e
non artistici, cercano di convincere la gente che la musica sia prima di
tutto sound design, ma è una grande bugia. Avere lo studio più fornito
con la strumentazione più fantascientifica non ti rende in automatico
anche il miglior musicista. Per creare della musica che sia
armonicamente ricca, bisogna essere preparati, e la preparazione in
musica assomiglia alla matematica: la matematica non costa nulla, è
gratis, ha solo bisogno di grande sforzo e concentrazione.
Altre cose stanno (ri)prendendo piede, nella scena
elettronica, dopo anni di apparente silenzio (soprattutto se non scavavi
nell’undeground più profondo): attivismo, impegno politico. Lo vedi
come un fenomeno positivo? O c’è il rischio di rendere “moda” passeggera
e spendibile temi invece importantissimi, utilizzandoli più o meno
nascostamente come mezzi di self-marketing?
Per rispondere bisogna tornare indietro agli anni ’60 e ’70, un
periodo di grandi cambiamenti e rivoluzioni. La ridistribuzione di
ricchezza avvenuta con la ricostruzione post-bellica aveva drasticamente
migliorato lo standard di vita di ampie fasce di popolazione, anche
quelle meno abbienti; in questo modo, molte persone ebbero lo spazio per
provare a contrapporsi al conformismo e sperimentare forme di vita
alternative, e questo generava un ottimismo ed un idealismo che è facile
ritrovare nella musica che si faceva in quegli anni. Quarant’anni fa è
iniziata invece una inversione di tendenza, rispetto a tutto
questo: Ayn Rand ha mostrato la via, sancendo che che l’avidità poteva essere una virtù e che l’idea di “bene comune”
era errata. Con la benedizione e l’incoraggiamento di tali teorie, il
sistema capitalistico ha iniziato ad auto-programmarsi per il disastro,
le privatizzazioni e la deregulation hanno creato le condizioni per un
attacco senza precedenti all’equilibrio ambientale. Ecco, un quadro di
questo tipo dovrebbe effettivamente portare ad una musica politicamente
impegnata, pronta a descrivere e denunciare. Dovrebbe. Speriamo che
altri seguano il mio esempio.
“Il collasso dell’umanità è quasi sicuramente inevitabile”, hai scritto su uno degli ultimo post del tuo blog, Metadelusion. Poche frasi più avanti, hai scritto “Solo
le civiltà in grado di passare da una società basata sull’economia ad
una società basata sulla cultura, e di farlo in un tempo accettabile,
riusciranno a sopravvivere”. Ma questo passaggio può avvenire solo
attraverso un collasso, un’apocalisse, una condizione traumatica? O si
può sperare in un passaggio “soft”?
Se ci sarà un collasso brutale, radicale, la civiltà umana andrà
irrecuperabilmente persa e questo è sinceramente inaccettabile. Ecco che
quindi l’unica soluzione è far accadere questa transizione il più in
fretta possibile, prima che arrivi il collasso più distruttivo. La “crescita infinita”,
se ci pensi, è la dinamica di funzionamento delle cellule cancerogene:
questo è un punto fondamentale. Io ho fatto il tifo per la decrescita
praticamente in tutta la mia vita, da quando sono diventato adulto e
responsabile; beh, i fatti stanno dimostrando che non era una idea
sbagliata… un’idea che poteva davvero funzionare, fosse stata già
imbracciata negli anni ’90. Il problema è l’inerzia. La forza d’inerzia.
Più grande è una massa e più velocemente va, più sarà difficile
fermarla e farle cambiare direzione. Noi siamo come un Titanic che corre
deciso verso un iceberg, come civiltà, e temo ormai sia troppo tardi
per evitare l’impatto; se trent’anni fa avessimo rallentato e ci fossimo
posti alcune domande sul nostro sistema di vita, forse eravamo ancora
in tempo ad evitare il disastro. Invece non abbiamo fatto altro che
accelerare. Ciecamente. Anche oggi lo stiamo facendo. Ecco,
risvegliatemi quando la Curva di Keeling avrà invertito il suo corso, o almeno sarà in una fase piatta.
Mi pare di capire quindi che le fondamenta ideali della Church Of Euthanasia siano più solide che mai, oggi…
Esattamente così. Solide e sensate come non mai. Grandi temi che
sembravano un po’ astratti nei primi anni ’90 – il climate change, la
biodiversità, l’estinzione di massa – oggi sono più attuali che mai,
anche nelle discussioni più mainstream. Fin dalla sua nascita, la Church
Of Euthanasia ha denunciato il rischio, anzi, la certezza di un
peggioramento in quanto a sovrappopolamento globale, consumo eccessivo
delle risorse naturali e danni ambientali. Purtroppo, sono tutte denunce
che si sono rivelate tragicamente corrette. Se poi l’homo sapiens è un
essere vivente intelligente, in grado di invertire le cose, avremo ora
modo di vederlo. Se lo è, privilegerà le strategie che portano ad una
sopravvivenza a lungo termine. Ovvero, impareremo ad essere più
cooperativi ed altruisti, con un’enorme attenzione a rimuovere
l’inquinamento dall’atmosfera. Se così non sarà, il futuro farà
semplicemente a meno di noi. Un mondo senza l’essere umano sarà una
tragedia, sì, ma solo per l’essere umano.
Chiudo con una domanda solo apparentemente strana: esiste una
relazione possibile tra sense of humour, filosofia, economia e scienze
sociali?
Il tempo a nostra disposizione si sta esaurendo: il rischio che
stiamo correndo è quello dell’estinzione di massa, e una prospettiva del
genere esige rispetto e serietà. E’ il momento insomma di una
comunicazione che sia diretta, sincera, ma è proprio lei a mancare nella
grande “conversazione globale” dei nostri tempi. Non stiamo
solo subendo la pandemia del CoVid19 ma anche quella di un pervasivo
solipsismo, vittime dell’ingannevole convinzione che solo noi stessi,
singolarmente, siamo reali… solo noi stessi contiamo. Il rifiuto della
realtà ci porta a costruire un mondo di fatti inventati, “piegati” alle
nostre convinzioni personali. Un atteggiamento molto infantile. Avremmo
bisogno, come civiltà, di una grande, metaforica bicchierata di acqua
fredda in faccia. E le cose da farsi vanno spiegate in modo molto chiaro
ed esplicito, di modo da essere comprensibili per tutti. Siamo scimmie
senza protezione che stanno disperatamente aggrappate ad uno sperone di
roccia, tutto questo in un contesto ostile – contesto che però è
semplicemente indifferente al nostro destino. O impariamo a crescere, o
moriamo.
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